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Giovanni Pascoli

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view post Posted on 4/12/2009, 16:12     +1   -1
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Giovanni Pascoli

Poeta




Giovanni Pascoli ( San Mauro di Romagna 31/12/ 1855 - Bologna 06/04/1912 ), fu uno dei maggiori poeti del ‘900 italiano.

La sua adolescenza venne sconvolta da lutti familiari, ma senza ombra di dubbio l’episodio più tragico della sua vita, fu quello che si riferisce all’uccisione del padre ad opera di ignoti nel 1867; un anno dopo morivano anche la madre e la sorella maggiore, lasciando sette orfani nella miseria e nella più completa disperazione. Lui all’età di 7 anni fu mandato nel collegio degli Scolopi ad Urbino, dove stette fino al 1871 e poté poi per fortuna continuare gli studi presso gli Scolopi di Firenze; vinta una borsa di studio, si iscrisse all’Università di Bologna.

Nel 1876, con la morte immatura del fratello Giacomo, piombò sulle sue spalle il grave peso della famiglia. Tutte queste sventure gli provocarono una sfiducia nella vita, destando nel suo animo un moto di rivolta contro il destino avverso; fu allora che studente, prese parte a manifestazioni sovversive e arrestato, perse anche la borsa di studio. Nel 1882 conseguì comunque la laurea in Lettere, iniziando così la sua carriera di professore; divenne docente universitario prima a Livorno, poi a Messina e quindi a Pisa, fino a quando nel 1905, passò all’Università di Bologna, dove occupò, fin quasi alla morte, la cattedra di Letteratura italiana, lasciata vacante da un altro importante personaggio, Giosue Carducci.

Giovanni Pascoli fu latinista insigne, prosatore, critico, ma soprattutto poeta lirico, senza dubbio uno dei più grandi ed originali della nostra storia letteraria. La sua poesia che in massima parte si ispira alle proprie sventure familiari, canta le bellezze della campagna, le umili creature della terra e del cielo, la nobiltà del lavoro, il mistero della vita e della morte.

La sua opera poetica è compresa nelle seguenti raccolte: la prima “Myricae” (1891), fu scritta durante il suo soggiorno a Livorno, mentre a Bologna pubblicò i “Primi Poemetti” (1897); nel primo libro, Pascoli in brevi balenanti composizioni, rappresentò lo stupore del suo spirito davanti le cose della natura, mentre nel secondo, adottò invece la forma più complessa del poemetto, ponendo al centro dell’opera un tema narrativo, come gli amori di Rosa e Rigo. Nel complesso però queste forme erano estranee alla sua sensibilità poetica, sicché rispetto a Myricae, i Primi Poemetti rappresentarono un’involuzione della sua poesia. Passato a Messina, alternò all’attività poetica, quella critica e scrisse tre volumi di critica dantesca come “Minerva oscura”, “Sotto il velame” e la “Mirabile visione”; questi studi non sono importanti al fine di una maggiore conoscenza dell’arte dantesca, ma lo sono perché ci indicano il gusto che il Pascoli aveva per il simbolo. I tre anni trascorsi a Pisa, furono molto fecondi per la sua produzione letteraria e nel 1903 uscirono i “Canti di Castelvecchio”, in cui con essi, Pascoli tornò alla struttura frammentaria a rapide impressioni, a fulminee suggestioni che erano state proprie delle Myricae. L’anno seguente (1904) pubblicò “I Poemi Conviviali”, ricercando una direzione del tutto diversa dalle sue precedenti opere; s’ispirò infatti a uomini, vicende e costumi dell’età classica, dall’età di Omero all’avvento di Cristo. E’ certo che in questo libro, Pascoli riuscì a darci un’opera di estrema perizia letteraria, allontanandosi però dalla reale ispirazione Pascoliana. Due anni dopo con “Odi e Inni” (1906), il poeta si ispirò alla poesia latina nel tentativo di dare all’Italia moderna, quella celebrazione poetica che non aveva; anche questa poesia civile, politica e sociale, si distaccava dalla sua sensibilità e nel complesso rappresentò soltanto un altro stadio involutivo del suo percorso letterario.

Passato nuovamente a Bologna, Pascoli avvertì molto il peso della responsabilità che gli procurava la cattedra di letteratura all’Università della città stessa e il desiderio di continuare sulla strada della poesia civile, lo scostarono sempre di più da quella che era la sua genuina ispirazione iniziale. Sono di questo periodo le “Canzoni di re Enzio” (1909), i “Poemi Italici” (1911) e i “Poemi del Risorgimento” (1913, postumo); nelle tre canzoni di re Enzio, Pascoli intese celebrare le gesta del bolognese comune, mentre nei Poemi Italici, fissò in forma poetica tre concetti della sua estetica e cioè che il poeta nulla possedeva al di fuori della sua poesia (Paolo Uccello), che l’anima per creare doveva essere libera dalle cose materiali (Rossini) e che infine l’ideale umano risiedeva nell’eroe. Per nostra fortuna all’infievolirsi della linfa poetica della poesia in italiano, corrispose un irrobustimento della poesia latina e sono di questo periodo i più belli “De Carmina” latini del Pascoli e fra questi forse il più bello in assoluto “Thallusa”, che fu inviato al premio internazionale di Amsterdam nel 1912; il poema narra di una donna, Thallusa, alla quale viene ucciso il marito e rapito il figlioletto, per cui in seguito a ciò diviene schiava in una casa pagana, dove si affeziona al più piccolo dei figli della padrona, Tertuglio, nel quale le sembra di riconoscere suo figlio. Tertuglio le sorride, ma la madre in preda alla gelosia, vende Thallusa. Pascoli con quest’opera vinse, ma fu anche l’ultimo successo, perché il 6 Aprile dello stesso anno, il poeta moriva a Bologna.

Altre opere da segnalare sono 4 antologie che Pascoli diede alla scuola, due latine per il liceo, “Lyra” ed “Epos”, due italiane per il ginnasio, “Fior da fiore” e “Sul limitare”.

Giovanni Pascoli sviluppò nella sua poetica lo smarrimento dell’uomo di fronte ai misteri del creato e di strappare la poesia ai freddi schemi razionali per riportarla sul piano fanciullesco dell’immaginazione, della gioia meravigliosa di chi per la prima volta, apre gli occhi sul mondo. Grande è stata l’influenza del Pascoli su alcuni dei più importanti autori italiani contemporanei come Ungaretti, Montale e Saba.






Il gelsomino notturno

E s'aprono i fiori notturni,
nell'ora che penso a' miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.
Un'ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.
Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento . . .
È l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.



La cavalla storna

Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.
Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;
che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.
Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:
« O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
il primo d'otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non tocco' mai briglie.
Tu che ti senti ai fianchi l'uragano,
tu dai retta alla sua piccola mano.
Tu c'hai nel cuore la marina brulla,
tu dai retta alla sua voce fanciulla».
La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:
« O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
lo so, lo so, che tu l'amavi forte!
Con lui c'eri tu sola e la sua morte
O nata in selve tra l'ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:
adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l'agonia . . . »
La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.
«O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
oh! due parole egli dove' pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.
Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,
con negli orecchi l'eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:
lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole».
Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l'abbraccio' su la criniera.
« O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!
a me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona . . . Ma parlar non sai!
Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!
Tu l'hai veduto l'uomo che l'uccise:
esso t'è qui nelle pupille fise.
Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t'insegni, come».
Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.
La paglia non battean con l'unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.
Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome . . . Sonò alto un nitrito.



Il brivido

Mi scosse, e mi corse
le vene il ribrezzo.
Passata m'è forse
rasente, col rezzo
dell'ombra sua nera,
la morte. . .
Com'era ?
Veduta vanita,
com'ombra di mosca:
ma ombra infinita,
di nuvola fosca
che tutto fa sera:
la morte. . .
Com'era ?
Tremenda e veloce
come un uragano
che senza una voce
dilegua via vano:
silenzio e bufera:
la morte. . .
Com'era ?
Chi vede lei, serra
nè apre più gli occhi.
Lo metton sotterra
che niuno lo tocchi,
gli chieda - Com'era?
rispondi . . .
com'era ?





Pascoli e Puccini

(due giganti della letteratura e composizione)





 
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